Secondo il corrispondente de La Repubblica in Cina, Federico Rampini, le proteste delle opinioni pubbliche europee, americane e via dicendo, ovunque la fiaccola olimpica sia passata – Londra, Parigi, San Francisco, New Delhi eccetera -, e anche altrove, hanno mostrato “un turbamento profondo tra le opinioni pubbliche democratiche, un disagio che i governi occidentali non riescono a interpretare”.
Cosi’ scriveva Rampini in un articolo dell’aprile scorso, ma mi sembra ancora attualissimo:
Abbiamo visto crescere la Cina come la nuova superpotenza dell’economia globale, l’abbiamo scoperta capace di esportare non solo prodotti e capitali ma anche influenza diplomatica, politica, perfino culturale. Quella parabola ha ispirato una certa ammirazione: per le centinaia di milioni di persone affrancate dalla miseria in pochi decenni; per l’efficienza di una classe dirigente capace di traghettare verso la modernità la nazione più popolosa del pianeta.
Sullo sfondo di una formidabile ascesa, restava in sospeso l’interrogativo drammatico sulla natura autoritaria del suo sistema politico, incompatibile con i valori universali dei diritti dell’uomo. Oggi l’avvicinarsi dei Giochi fa esplodere la contraddizione tra l’immenso peso della Cina nel mondo, e la sua pericolosa diversità, l’intransigenza con cui i suoi dirigenti rifiutano di imboccare la via delle riforme democratiche. Europei e americani sono sgomenti di fronte al mutismo dei loro governi perché dietro vi intuiscono un’impotenza, sospettano opportunismi e viltà.
[…] rivolta del Tibet, schiacciata dalla repressione cinese. Pochi giorni fa il regime di Pechino ha dato un’altra prova dei metodi con cui garantirà l’ordine durante i Giochi di agosto: ha condannato a tre anni e mezzo di carcere Hu Jia, l’attivista umanitario colpevole di aver difeso i malati di Aids, di battersi per la tutela dell’ambiente, per la libertà religiosa; un dissidente odiato dalle autorità per i suoi contatti con la stampa estera e il coraggio con cui usava Internet sfidando la censura.Questo giro di vite contraddice gli impegni di liberalizzazione presi dalla Repubblica popolare quando ottenne l’assegnazione delle Olimpiadi, il 13 luglio 2001. Nessun governo occidentale finora ha trovato le parole per dirlo. Pochi giorni fa da un vertice dell’Unione europea è uscita una penosa cacofonia sul Tibet e i Giochi. La Francia ha peggiorato la confusione, dettando precise condizioni per la partecipazione di Sarkozy alla cerimonia inaugurale, che sono state smentite dopo poche ore.
Colpisce il silenzio dell’Occidente su un altro spettacolo preoccupante che va in scena a Pechino: il tiro al bersaglio contro la stampa straniera. Irrigidito per la tensione interna ed esterna che sente crescere all’avvicinarsi di agosto, esasperato per l’impatto mondiale della repressione in Tibet, il regime di Hu Jintao ha deciso di prendere di mira chi diffonde le notizie sgradite. Dopo aver sigillato il Tibet e perfino regioni limitrofe come il Sichuan, vietando l’accesso ai giornalisti stranieri; dopo aver blindato l’informazione interna con la propaganda, ora il governo dirige una virulenta campagna contro la stampa estera accusata di pregiudizi, distorsioni e manipolazioni.
L’operazione è partita in sordina, con la denuncia di errori in alcune immagini diffuse da Cnn e Bbc. Poi sono sbocciati dei siti Internet animati da cittadini-vigilantes a caccia di disinformazione: uno di questi si chiama www. anti-cnn. com. In un paese che ha ormai più utenti online dell’America (230 milioni), e dove 30.000 informatici lavorano a tempo pieno per censurare il web, il principale portale nazionale Sina. com ha lanciato una petizione popolare per condannare i “pregiudizi” dei mass media stranieri: fino a ieri aveva raccolto 1.140.000 firme (secondo dati del governo, naturalmente incontrollabili).
Il principale giornale nazionale, il Quotidiano del Popolo, ha un forum online dove i lettori autorizzati inseriscono commenti di questo tenore: “A Lhasa sono stati commessi crimini violenti ma i mass media occidentali ne hanno dato versioni false e tendenziose”. “I cinesi sono indignati, la stampa estera deve vergognarsi”. Dalle denunce generiche si è passati alle intimidazioni personali. Alcuni corrispondenti americani hanno ricevuto centinaia di telefonate e sms anonimi con minacce di morte estese ai familiari. Gli autori sono “gruppi nazionalisti” non meglio identificati. Due giornalisti occidentali si sono dovuti trasferire per precauzione da Pechino a Hong Kong.
Dietro questo crescendo di ostilità c’è una regìa inequivocabile. Il governo non ha neppure cercato di nascondere il suo ruolo: il sito ufficiale delle forze armate ha pubblicato un lungo elenco di giornalisti stranieri con le loro coordinate personali, dal numero di cellulare all’indirizzo di casa. La caccia alle streghe riecheggia in modo sinistro certe pagine di storia del maoismo. A quattro mesi dalle Olimpiadi per le quali aveva promesso libertà d’azione ai mezzi d’informazione, Pechino sta orchestrando con le risorse dello Stato un linciaggio virtuale dei mass media stranieri.
Se avvenisse in un paese meno importante i governi occidentali avrebbero già reagito. In questo caso invece dall’America all’Europa il silenzio è assordante. E i nostri comitati olimpici nazionali, riuniti proprio in queste ore a Pechino, fanno finta di non vedere nulla. Il realismo che deve guidare le diplomazie non ci impone di calpestare i valori su cui sono fondate le nostre democrazie […].