Il debutto: la «stalla»
Briatore e’ conosciuto principalmente come team manager di Formula 1. Ma da dove viene?
Briatore nasce a Verzuolo (in provincia di Cuneo) nel 1950, da insegnanti di scuola elementare.
Si diploma «con il minimo dei voti» (dice lo stesso Briatore) come geometra, con tesina dal titolo «Progetto di costruzione di una stalla»
Lavora come istruttore di sci e gestore di ristoranti.
Ne apre uno, ma presto il ristorante deve chiudere.
Dopo aver fatto il piazzista di polizze assicurative a Saluzzo e dintorni, esordisce nel mondo dell’imprenditoria a Cuneo, diventando assistente, factotum o faccendiere che dir si voglia di un finanziere e costruttore edile locale, tale Attilio Dutto, che aveva rilevato la Paramatti vernici. A meno che non siate di Cuneo, probabilmente non ne avete mai sentito. Ma e’ stata un’azienda del criminale Michele Sindona.
Il 21 marzo del 1979, Attilio Dutto venne assassinato a Cuneo con una bomba collegata all’accensione della sua auto: l’omicidio fece un grosso scalpore nella tranquilla cittadina piemontese. La verità su quel botto del 1979 non si è mai saputa, ma si dice che avesse pestato i piedi in Costa Azzurra a qualcuno di importante. Da questo momento, però, comincia l’escalation di Briatore.
A Milano a spennare i polli
Briatore lascia la piccola Cuneo e si sposta a Milano. Casa in piazza Tricolore, molta ricchezza esibita, cattivo gusto profuso a piene mani. Occupazione incerta.
Frequenta agenti di cambio e remisiers, bazzica la Borsa, si dà arie da finanziere.
In Borsa conosce il conte Achille Caproni da Taliedo (quello di Caproni Aeroplani) e divenne consulente della Cgi (Compagnia generale industriale), sua holding. Risultati disastrosi: la Paramatti, acquistata nel frattempo da Caproni sotto consiglio dello stesso Briatore, ebbe un “crac” e il pacchetto azionario della Cgi fu venduto alla statale Efim. Le società del gruppo subiscono fallimenti a catena, gli operai sono messi in cassa integrazione, banche e creditori sono lasciati con un buco di 14 miliardi.
Per un certo periodo Briatore si presenta in pubblico come discografico, gira per feste e salotti con Iva Zanicchi al seguito. Continua a sognare il grande affare.
Intanto però trova una compagnia da Amici Miei con cui tira scherzi birboni ai polli di turno. C’è un finto marchese, Cesare Azzaro, che si ritiene il miglior giocatore di carte del mondo. C’è un conte vero, l’Achille Caproni di Taliedo di cui abbiamo accennato in precedenza, rampollo della famiglia che ha fatto volare gli aerei italiani. C’è un avvocato dal nome altisonante, Adelio Ponce de Leon. E uomini dello spettacolo e della TV: Pupo (al secolo Enzo Ghinazzi), Loredana Berté, Emilio Fede, al tempo – erano i primi anni Ottanta – al vertice della sua carriera in Rai, vicedirettore del Tg1 e conduttore del programma Test.
Alcuni si riveleranno truffatori, altri saranno truffati.
L’ambiente è una sorta di laboratorio dell’«edonismo reaganiano»: affari, soldi, gioco, belle donne. Luoghi d’incontro, case e bische clandestine a Milano e Bergamo, le ville del conte Caproni a Vizzola Ticino e a Venegono, hotel e casinò in Jugoslavia e in Kenya.
Le feste, le battute di caccia, i safari in Africa sono occasioni per proporre affari, business che restano però sempre progetti: di concreto c’è sempre e solo un mazzo di carte che spunta all’improvviso su un tavolo verde. A cadere nella rete furono alcuni nomi importanti, tra cui:
- l’imprenditore (dei gelati) Teofilo Sanson (che perde 20 milioni)
- Pupo (60 milioni)
- l’armatore Sergio Leone (158 milioni in due serate all’Hotel Intercontinental di Zagabria)
- l’ex vicepresidente di Confindustria, Renato Buoncristiani (495 milioni)
- e l’ex presidente di Confagricoltura, Giandomenico Serra (1 miliardo tondo tondo, in buona parte in assegni intestati a Emilio Fede…).
A posteriori Briatore la racconta così: «Mi piacevano scala quaranta, scopa, poker, chemin… No, il black jack non l’ho mai capito, la roulette non mi ha mai preso. Tra noi c’erano anche bari, io non c’entravo nulla, però, lo ha scritto anche Emilio Fede nel suo libro. Dall’83 non gioco più, qualche colpo a ramino, stop».
La magistratura giacobina ante litteram
In verità la storia era più complessa: un gruppo di malavitosi di rango, eredi del boss Francis Turatello, dedito al traffico di droga e al riciclaggio, aveva pianificato (e realizzato per anni) una truffa alla grande, con carte truccate e tutti gli optional del caso. I polli da spennare, chiamati gentilmente «clienti», erano individuati con un’azione scientifica di studio e di ricerca, dopo aver «comprato» informazioni da impiegati compiacenti dentro le banche e dopo aver compilato accurate schede informative (complete di disponibilità finanziarie, interessi, relazioni, gusti: meglio agganciarli proponendo una battuta di caccia o portando un paio di ragazze molto disponibili?).
Briatore, a capo di quello che i giudici chiamano «il gruppo di Milano», nel business aveva il delicato compito di «agganciare» i «clienti» di fascia alta, ingolosirli con qualche buon affare, farli sentire a loro agio con una adeguata vita notturna. E poi spennarli.
Il simpatico gioco s’interrompe con una retata, una serie d’arresti, un’inchiesta giudiziaria e un paio di processi.
Briatore in seguito viene condannato in primo grado ad 1 anno e 6 mesi a Bergamo e a 3 anni a Milano per essere il capo di quello che i giudici chiamarono «il gruppo di Milano». Come detto, i giudici concludono che il ruolo di Briatore all’interno del gruppo criminale era quello di agganciare clienti di fascia alta e inserirli nel giro, allo scopo di truffarli. I due processi coinvolgono tra gli altri l’amico Emilio Fede (allora potentissimo direttore di Rai Uno), alla fine assolto per insufficienza di prove.
Negli atti giudiziari del processo alle bische c’è un numero di telefono di New York (212-833337) segnato nell’agenda di Briatore accanto al nome «Genovese»: «È un numero intestato alla ditta G&G Concrete Corporation di John Gambino, con sede in 920, 72 Street, Brooklyn, New York. Tanto il Gambino quanto il Genovese sono schedati dagli uffici di polizia americana quali esponenti di rilievo nell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra». Ha amicizie importanti, il Briatore, e non lo nega: «Ho conosciuto alcuni esponenti delle famiglie Gambino e Genovese tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta», dirà Briatore al pubblico ministero di Palermo Antonio Ingroia nel 2007 nell’ambito di una indagine sul riciclaggio internazionale. «Ricordo di averli conosciuti in occasione di un concerto tenuto da Iva Zanicchi e Riccardo Fogli a Brooklyn».
Briatore però non fa un solo giorno di carcere. Preferisce rifugiarsi per tempo nella favolosa Saint Thomas, nelle Isole Vergini, per poi tornare in Italia dopo un’amnistia.
In esilio per non perdere la libertà
Prima di essere condannato alla galera, Briatore aveva conosciuto Luciano Benetton. A presentarglielo era stato il maestro di tennis di Silvio Berlusconi, Romano Luzi, e poi suo fabbricante di fondi neri.
L’amicizia con Luciano Benetton gli permise, nonostante la condanna e la latitanza, di aprire alle Isole Vergini qualche negozio Benetton e di fare rapidamente carriera nel gruppo di manager dell’azienda di Ponzano Veneto. La famosa meritocrazia.
Briatore come venditore è bravo, forse mette a frutto l’esperienza da truffatore. Riesce a piacere a uomini e donne. Ha carisma. Riuscirebbe a vendere anche il ghiaccio al Polo Nord, dice di lui chi lo conosce bene. E aggiunge: venderebbe anche sua madre.
Dunque Briatore è ricercato, condannato e latitante alle isole Vergini, ma è proprio qui che spicca il volo definitivo verso il successo. Cervello in fuga.
La piccola fiduciaria Finclaus
Nel frattempo passa nel dimenticatoio anche un’altra storia che sfiora Briatore nei primi anni Ottanta. Una vicenda complicata di azioni Generali che passano di mano: un pacchetto di oltre 330 miliardi di lire. Protagonisti: Anthony Gabriel Tannouri (libanese, noto alle cronache e all’inchiesta del giudice Carlo Palermo come trafficante d’armi); Mazed Rashad Pharson, sceicco arabo e finanziere internazionale; e Florio Fiorini, padrone della finanziaria Sasea, ex manager Eni, esperto di mercato petrolifero. Il pacchetto di Generali diventa la garanzia di opache transazioni internazionali: di petrolio tra la Libia e l’Eni, di armi ed elicotteri da guerra (gli americani Cobra) che dopo qualche triangolazione (con il Venezuela, con il Sudafrica) finiscono a Gheddafi malgrado l’embargo. La vicenda è rimasta oscura. Certo è che per recuperare le azioni si è mosso anche il presidente di Mediobanca Enrico Cuccia e che, nel suo giro del mondo, il superpacchetto di Generali è passato anche per una sconosciuta fiduciaria milanese, la Finclaus, capitale sociale soltanto 20 milioni, che per qualche tempo e’ stata nelle mani di Flavio Briatore.
Gli amici siciliani
Il nome di Briatore finisce dritto in una megainchiesta antimafia condotta dai magistrati di Catania, accanto ai nomi di mafiosi dalla caratura internazionale. Niente di penalmente rilevante, intendiamoci: lui, Briatore, non è stato indagato; ma la sua voce resta registrata in conversazioni con boss di rango.
Felice Cultrera, uomo d’affari catanese che fa riferimento al boss di Cosa Nostra Nitto Santapaola, è il centro dell’inchiesta antimafia. Stava imbastendo business di tutto rispetto: la costruzione di 5 mila appartamenti a Tenerife; l’acquisto di quote dei casinò di Marrakech, Istanbul, Praga, Malta, Montecarlo, da usare per riciclare denaro sporco; la commercializzazione e la ricettazione di titoli al portatore; l’intermediazione di armi pesanti e l’acquisto di elicotteri (con la presenza nell’affare di una vecchia conoscenza delle inchieste sul traffico d’armi e droga, il miliardario arabo Adnan Khashoggi); l’avvio di attività finanziarie in Spagna, Arabia Saudita, Israele, Giordania, Egitto, Marocco, Turchia, Cecoslovacchia, Russia, Corea, Hong Kong, Montecarlo… Un vortice d’affari, di contatti, di relazioni. Ebbene, chi è uno degli interlocutori dell’attivissimo Cultrera? Proprio Flavio Briatore (del resto, il gruppo dei catanesi coltivava buoni rapporti anche con i fratelli Alberto e Marcello Dell’Utri e con il celeberrimo generale dei carabinieri Francesco Delfino). Nel maggio 1992, dunque, Cultrera e Briatore, intercettati dalla Dia (la Direzione investigativa antimafia), conversano amabilmente di affari e affaristi. Briatore chiede consigli: racconta che un certo Cipriani (è il rampollo della famiglia veneziana), spalleggiato da tal Angelo Bonanno, aveva cercato di intromettersi nella fornitura di motori di Formula 1; per convincere l’uomo del team Benetton, Cipriani gli aveva squadernato le sue referenze: «Sono amico di Tommaso Spadaro, sono amico di Tanino Corallo». Nomi d’oro, nell’ambiente: Spadaro è il ricchissimo boss padrone dei casinò dell’isola caraibica di Saint Maarten; Corallo è l’uomo che qualche anno prima aveva tentato, per conto della mafia, la scalata dei casinò italiani di Saint Vincent e di Campione. Cultrera ascolta con interesse, poi conferma all’amico Briatore che sì, è tutto vero: Bonanno «È uno pesante, inserito in una famiglia pesante». Infatti: Bonanno è un narcotrafficante del clan mafioso catanese dei Cursoti, coinvolto anche nell’indagine sull’Autoparco di Milano. Dunque meglio non contrariarlo.
Gli amici (non necessariamente siciliani) e la seconda bomba
Quando, il 10 febbraio 1993, una bomba esplode (è la seconda, nella vita di Briatore) davanti alla porta della sua splendida casa londinese in stile re Giorgio, in Cadogan Place, nell’elegante quartiere di Knightsbridge, distruggendo una colonna del porticato e facendo saltare i vetri tutt’attorno, qualche voce cattiva la mette in relazione con i traffici d’armi o altri commerci. Solo maldicenze: i giornali britannici scrivono che è stata una “piccola bomba” dell’Ira.
Intanto Briatore esibisce i suoi soldi, le sue donne, le sue case. Appartamento a New York, villa a Londra, attico a Parigi, pied-à-terre ad Atene, tenuta in Kenya («Lion in the sun»). Aereo privato. Yacht di 43 metri, «Lady in blue», con un Fontana e un Giò Pomodoro nel salone. Ha amici importanti soprattutto in Inghilterra (Eccleston innanzitutto, ma anche David Mills, avvocato londinese di Berlusconi, specialista nella costruzione di sistemi finanziari internazionali «riservati», tipo All Iberian). Briatore è «arrivato» e lo fa vedere, senza risparmio.
Formula 1
Senza sapere nulla di ingegneria, da geometra diplomato con una tesina dal titolo «Progetto di costruzione di una stalla», all’inizio degli anni Novanta Briatore prende in mano una scuderia di Formula 1. Si tratta della Benetton del suo amico Luciano, creata nel 1986 da Davide Paolini e Peter Collins sulle ceneri della Toleman. Nel 1994 e nel 1995, con Michael Schumacher come pilota, la porta alla vittoria mondiale. «Ma la Formula 1 non è uno sport, è un business», ripete. E lui da questo business (off-shore per definizione, fuori da ogni regola e da ogni trasparenza) ha saputo spremere miliardi. A trovare sponsor è bravissimo. Per il team spendeva molto, è vero, ma i suoi bilanci non hanno mai chiuso con disavanzi superiori ai 3 miliardi: la Benetton, dunque, ha ottenuto una copertura pubblicitaria planetaria, del valore di almeno 15 miliardi all’anno.
Affari e successo: un uomo, un simbolo
Ma Briatore non sta fermo. Mentre macina soldi in Benetton, cura anche business in proprio: compra e rivende la Kicker’s (scarpe per bambini), acquista un’altra scuderia di Formula 1, la Ligier (dopo qualche tempo la rivenderà ad Alain Prost), prende una quota della Minardi, poi diventa socio del team Bar.
Forse è troppo anche per Luciano Benetton, che nel 1996 divorzia dall’amico «un po’ teppista ma tanto simpatico». Niente di male, Briatore incassa una buonuscita di, pare, 34 miliardi, ma nulla è sicuro in questo campo. Subito si ripresenta con una sua azienda, la Supertech, in società nientemeno che con Ecclestone, che sviluppa i motori Renault e li fornisce a tre team, Bar, Williams, Benetton. Poi compra la casa farmaceutica Pierrel.
E’ di nuovo coinvolto da inchieste giudiziarie: nel novembre del 2003 il P.M. di Potenza Woodcock chiede la custodia cautelare di Briatore nell’ambito di una inchiesta che coinvolge molti Vip con un sottobosco di pressioni indebite verso ambienti ministeriali. Ma il Gip di Potenza emana una sentenza di incompetenza per territorio. E Briatore continua ad essere libero come un uccello, anzi uno stupendo pappagallo dalle penne multicolori. Bello ma anche furbo.
A Briatore piace apparire. Ma apparire gli piace almeno quanto possedere. Le due cose si sono ben sposate nel Billionaire, discoteca con piscina ottagonale infarcita di vip a Porto Cervo, in Sardegna: buon investimento, ma soprattutto ottimo palcoscenico per le sue apparizioni in pantofoline di velluto bordeaux al fianco di Naomi Campbell (storia inventata, dicono i bene informati, a partire dalla pierre Daniela Santanché da Cuneo, amica di gioventù di Briatore e oggi pasionaria del partito neo-fascista La Destra).
Flavio Briatore ha vinto. Le brutte storie del passato nessuno le ricorda più. I media lo dipingono come un uomo di successo, non raffinatissimo, ma ugualmente coccolato dai salotti di ogni tipo. Il passato, anche per lui, è scomparso.
Briatore è stimato. Briatore è invidiato. Briatore è l’esempio da seguire. Briatore è il sogno realizzato. Briatore è l’italiano che ce l’ha fatta. Briatore è un Berlusconi. Briatore è il simbolo del genio italiano dell’ultima generazione. Qualche problema con la giustizia, macchine, pallone, donne, affari loschi e qualche schizzo di mafia.
Io sono made in Italy da esportazione. (Flavio Briatore, Corsera Magazine, 29 dicembre 2005)
È il mercato che decide chi diventa ricco e chi diventa povero. (Flavio Briatore, Corriere della sera, 15 ottobre 2006)
Se tra un paio d’anni potessi dare un contributo alla politica italiana perché no? Ci rivediamo e ne parliamo, la politica non annoia. (Flavio Briatore, Corriere della sera, 15 ottobre 2006)