Con piacere e con l’autorizzazione dell’autore Giulio Gori pubblico il seguente interessantissimo articolo che ripercorre con chiarezza la storia del Kosovo dagli anni ’90 ad oggi.
KOSOVO, STORIA DI UN FALLIMENTO
Le responsabilità occidentali nell’atavico scontro tra serbi e albanesi
Scritto da Giulio Gori ( 5 Maggio 2008 )
Prologo
Guerre umanitarie? Crisi inevitabili? Riflettendo sulla storia recente del Kosovo e sui conflitti che l’hanno attraversato, le responsabilità dell’occidente, mascherate dietro schemi autoassolutori, emergono purtroppo con limpidezza.
Nel corso degli anni ’90, le numerose associazioni umanitarie presenti nella regione denunciano all’occidente le sopraffazioni subite dalla popolazione albanese da parte delle milizie del generale Arkan, di gruppi militari serbi deviati, con la dolosa condiscendenza delle autorità di Belgrado. Villaggi albanesi svuotati, persecuzioni di presunti sovversivi, terrorismo di varia natura. D’altro canto, dal 1996, l’albanese UCK, gruppo combattente organizzato in clan, di indiscutibile origine mafiosa, combatte apertamente contro le milizie serbe, ma non rinuncia a imitarne i metodi, compiendo azioni violente contro la stessa popolazione serba.
Il Consorzio Internazionale di Solidarietà e Beati i costruttori di pace sono tra i protagonisti di campagne a lungo inascoltate dalla politica italiana, impermeabile ad ogni forma di input che non venga dagli Stati Uniti o dalla NATO.
Alla fine del decennio tuttavia, qualcosa cambia. L’entità della pulizia etnica serba nei confronti della maggioranza albanese del Kosovo si fa di giorno in giorno più importante, così come la reazione dell’UCK (che si riorganizza dopo essere stato messo quasi in ginocchio nell’estate 1998). Di punto in bianco a Bruxelles, nel quartier generale della NATO, si comincia sottovoce a parlare di guerra.
L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico), nell’inverno ’98-’99, invia un contingente sul territorio per verificare la possibilità di una soluzione pacifica dello scontro e per tentare di metterla in atto. La missione prevede la presenza di 1400 osservatori civili. Arriveranno 700 persone, per lo più militari. Lisa Clark, di Beati i costruttori di pace, denuncerà il comportamento degli inviati, rimasti chiusi nelle proprie caserme, privi di istruzioni e completamente inattivi.
Di conseguenza, di fronte ad associazioni che riescono, con pochissimi mezzi, a far ritornare persone terrorizzate e nascoste in boschi e caverne nelle proprie abitazioni, l’OCSE annuncia al mondo che ogni tentativo di conciliazione è risultato vano e che una risoluzione di tipo umanitario è impraticabile. E’ necessario a questo punto sottolineare che tutti gli attori politici che successivamente parleranno di guerra inevitabile e di sforzi di pacificazione non andati a buon fine faranno riferimento a quella missione farsa, terminata il 15 gennaio 1999, ufficialmente a causa dell’uccisione di 51 persone da parte serba, a Racak e Petrove.
Le vere ragioni della guerra
Gli anni ’90 rappresentano il tentativo dell’Unione Europea di darsi una spina dorsale politica, fondata, oltre che sulla moneta e sulla Banca Centrale uniche, anche sull’idea di una Costituzione e di una politica estera comuni. La nascita di una nuova potenza di livello mondiale che sia capace di muoversi con coerenza e decisione sulla scena politica, non può non spaventare gli Stati Uniti. Che avviano una serie di contromisure.
Prima di tutto, Washington capisce l’importanza di un programma di destabilizzazione politica del vecchio continente. Le tappe sono quattro: riuscire a realizzare, nell’ambito della NATO, una forza di dispiegamento rapido prima che l’UE possa crearne una propria; spingere i paesi dell’Est europeo ad accelerare l’integrazione nell’Unione, in modo tale da indebolirne la compattezza e coesione; imporre nelle controversie internazionali la centralità di istituzioni come la NATO e il G7; infine, entrare in Europa e dimostrare chi comanda. Quale migliore possibilità di una guerra?
Del resto gli Stati Uniti vogliono ridimensionare l’influenza della Federazione Jugoslava sulla regione balcanica. Interessi economici e geopolitici fanno sì che l’area sia appetibile. Ennio Di Nolfo, massimo esperto italiano in Storia delle Relazioni Internazionali, nel 1999, afferma che scopo di Washington è il controllo del territorio kosovaro al fine di gestire il futuro oleodotto transbalcanico (Ambo).
Una strategia imperiale e imperialista nello stesso tempo.
La farsa di Rambouillet
E’ con questi intenti che partono le trattative di pace tra NATO (un soggetto senza alcuna legittimazione nel diritto internazionale) e la Federazione Jugoslava. Al castello di Rambouillet (Francia), il 6 febbraio 1999, si aprono gli incontri diplomatici. Da un lato l’Alleanza atlantica e i delegati kosovari, dall’altro la Federazione Jugoslava.
I giochi sono fatti prima di cominciare. Gli Stati Uniti pongono a Belgrado un ultimatum irricevibile col quale, di fatto, le milizie NATO avrebbero pieni poteri in tutto il paese:
Oltre all’autonomia del Kosovo, la proposta di accordo afferma: “Il personale Nato dovrà godere, con i suoi veicoli, vascelli, aerei e equipaggiamento di libero ed incondizionato transito attraverso l’intero territorio della Federazione delle Repubbliche Jugoslave, ivi compreso l’accesso al suo spazio aereo e alle sue acque territoriali. Questo dovrà includere, ma non essere a questo limitato, il diritto di bivacco, di manovra e di utilizzo di ogni area o servizio necessario al sostegno, all’addestramento e alle operazioni”. E inoltre: “Il personale Nato sarà immune da ogni forma di arresto, inquisizione e detenzione da parte delle autorità della Repubblica Federale Jugoslava. Il personale della Nato erroneamente arrestato o detenuto dovrà essere immediatamente riconsegnato alle autorità Nato”
Inoltre gli Stati escludono dalle discussioni i leader storici della comunità albanese, compreso il carismatico esponente moderato Ibrahim Rugova, il Gandhi dei Balcani (legittimato dalla vittoria nelle elezioni clandestine del 1998), per affidare la rappresentanza kosovara a un gruppo di sconosciuti militanti nelle file dell’UCK. Questo relazione pericolosa consente a questi ultimi di rinnegare la richiesta di disarmo di tutte le forze combattenti in territorio kosovaro. In definitiva, emerge evidente una disparità di trattamento tra le forze in campo.
Lamberto Dini, il 9 aprile, con colpevole ritardo, ammetterà la responsabilità kosovara nel fallimento delle trattative, sostenendo che i Serbi avevano accettato di fatto l’autonomia, ponendo solo delle limitazioni ai diritti delle truppe NATO, onde evitare il rischio dell’indipendenza. (il 22 febbraio, il Segretario di Stato USA, Madeleine Albright si era impegnata, verso la parte kosovara, a garantire, entro tre anni, il distacco dalla Federazione). Al contrario, dirà Dini, i kosovari avevano accettato di firmare un documento molto diverso da quello concordato inizialmente a Rambouillet (La Repubblica, 10 aprile 1999). Lo stesso Henry Kissinger dichiarerà: “Il testo di Rambouillet, che chiedeva alla Serbia di ammettere truppe NATO in tutta la Jugoslavia era una provocazione, una scusa per iniziare il bombardamento” (Daily Telegraph, 28 giugno 1999).
La guerra umanitaria
Il 24 marzo 1999 la NATO inizia a bombardare il territorio della Federazione Jugoslava, pur senza alcuna legittimazione da parte dell’ONU (a causa del veto posto da Russia e Cina). La NATO non ha alcun diritto ad intervenire, perché così facendo viola il diritto internazionale, che non le riconosce alcuna autorità in tal senso, e persino il proprio statuto, che consente soltanto operazioni difensive.
In Italia si parla di “guerra umanitaria” (dopo che nel ’91, in Iraq, si era parlato di “operazione di polizia internazionale”), per trovare un pretesto alla palese violazione dell’art 11 della Costituzione. Fini giuristi e insigni politologi di corte, tra i quali spicca Giovanni Sartori, compiono acrobazie strabilianti pur di convincere che l’espressione “L’Italia ripudia la guerra…” non è una norma prescrittiva. D’Alema ha, dal canto suo, l’impudenza di far partire la “missione arcobaleno” per tutelare le vittime kosovare. Tutto l’occidente parla di genocidio da parte serba, con un balletto di cifre inconsulte che ricorda la grande mistificazione di Timisorara di dieci anni prima.
In Kosovo e in Serbia piovono bombe. Vittime civili (la colpa non è della NATO, ma di Milosevic che li usa come scudi umani – sic!), abitazioni, treni, ferrovie e strade scientemente distrutti, falde acquifere inquinate, riserve naturali bruciate; fabbriche metalmeccaniche, come la Zastava, l’ambasciata cinese e persino la televisione pubblica, rase al suolo. Ma soprattutto punite città, come Niş e Belgrado, che pure avevano sfidato Milosevic e gli avevano impedito l’annullamento delle elezioni amministrative dell’inverno precedente, vinte dall’opposizione. Vengono anche abbattuti i ponti sul Danubio, fiume internazionale, con la conseguente interruzione dei traffici fluviali, che coincide con un sostanziale atto di guerra nei confronti di numerosi paesi. Va considerato inoltre che l’inizio delle ostilità, coinciso con il ritiro di tutte le organizzazioni umanitarie internazionali, non può che aver consentito un inasprimento della repressione serba contro gli albanesi.
Nei bombardamenti viene impiegato in modo massiccio l’uranio impoverito. Questo elemento provoca perdita di capelli, emorragie, scompensi renali e epatici, ma soprattutto cancri e leucemie. Il linfoma di Hodgkin colpisce i soldati italiani (presenti nell’area dopo il conflitto) 3,69 volte in più rispetto alla normale popolazione del nostro paese. Il dato è stato fornito dalla commissione governativa ad hoc ed è stato confermato dall’ex ministro della Difesa, Arturo Parisi. L’Osservatorio militare italiano ha inoltre confermato una relazione tra l’uranio impoverito e le disfunzioni tiroidee.
Il risultato della guerra è un numero di morti imprecisato e centinaia di migliaia di profughi, descritti dalla libera televisione occidentale come vittime dei soprusi serbi.
La resistenza jugoslava è presto piegata e messa in ginocchio; ma paradossalmente, almeno dal punto di vista politico, Milosevic vince la guerra, perché ottiene condizioni più favorevoli di quelle pretese a Rambouillet: di fatto il territorio serbo rimane indipendente e libero dalle forze straniere. Del resto, anche gli Stati Uniti e i vertici NATO hanno vinto: a loro interessava il Kosovo, mentre le istanze (irricevibili) rivolte a Belgrado erano solo strumentali, ovvero volte a scatenare il conflitto. A perdere sono le popolazioni serba e albanese e l’Europa, che scioccamente canta vittoria.
A dare la definitiva umiliazione alla credibilità del vecchio continente, la fine del conflitto viene decisa, l’8 giugno 1999, nell’ambito delle riunioni di Colonia del G7, un consesso del tutto informale e privo di qualsiasi ratificazione nel diritto internazionale.
Va detto inoltre che la guerra del Kosovo comporta il massimo momento di tensione internazionale dalla fine della guerra fredda, con la Russia profondamente contrariata dall’intromissione occidentale in quello che considera il proprio orto, e con un presidente, Boris Eltzin, in uno stato di scarsa lucidità mentale, che ricorda minacciosamente al mondo di avere le chiavi delle testate nucleari.
Il dopo guerra
Il dopoguerra si apre con l’occupazione del Kosovo da parte delle forze NATO e UNMIK (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo: le Nazioni Unite vengono coinvolte ex post per dare una patente di legittimità alla missione). Naturalmente è all’Europa che tocca il fardello più pesante nella gestione del piano di pace militare.
Uno degli aspetti più interessanti di questo periodo è la durissima reazione della comunità albanese contro i serbi kosovari. Pristina contro Mitrovica, villaggi contro villaggi. Le forze occidentali appaiono quantomeno passive di fronte a questo quadro di violenza, in cui l’UCK, unica forza sul campo rimasta in possesso di una rilevante potenza di fuoco, la fa da padrona. Gli albanesi attaccano anche comunità musulmane (da sempre pacifiche) come i rom e gli ascalia. Nei primi anni dopo la guerra molti membri di queste due comunità cercheranno asilo politico in Italia. Asilo che verrà puntualmente respinto, perché in Kosovo ufficialmente va tutto bene, non ci sono violenze, non ci sono sopraffazioni, non ci sono vittime. “Per quanto ci riguarda, il Kosovo non è più pericoloso di Napoli” sentiamo dire nel 2000 da un rappresentante della questura di Firenze, consultato in merito alla richiesta d’asilo di un giovane ascalia, la cui casa è stata distrutta dalle bombe NATO e i cui familiari sono irreperibili a seguito delle persecuzioni albanesi.
Nel corso dei primi cinque anni dalla fine del conflitto gruppi di etnia albanese distruggono oltre sessanta tra chiese e monasteri cristiani. Ma i fatti più gravi avvengono nel marzo 2004, quando gruppi di etnia albanese attaccano, in pochi giorni, più di trenta chiese e monasteri cristiani, uccidendo venti persone e incendiando decine di abitazioni di serbi.
Con la fine della guerra si giunge anche a fare un conto più credibile delle vittime della repressione serba ante guerram. Le monde diplomatique (marzo 2000) ricostruisce magistralmente la progressivo sgonfiarsi delle frottole occidentali riguardo alle vittime albanesi della repressione serba. Il conflitto è stato giustificato attraverso lo spauracchio del genocidio (che comporterebbe la volontà di sterminio del gruppo etnico albanese, cosa del tutto impropria nel quadro di uno scontro essenzialmente politico): si parla inizialmente di mezzo milione di vittime, poi di centomila, fino a scendere a qualche decina di migliaia. Si parla di fosse comuni, per la verità mai ritrovate. Il 15 novembre 1999, Il Tribunale Internazionale per i Crimini nella Ex Jugoslavia, in uno stato di forte imbarazzo, interrompe le ricerche dei cadaveri. Al momento ne ha rintracciati 2018, senza la possibilità di definire se siano o meno caduti prima dell’inizio conflitto, e se siano o meno albanesi. La motivazione ufficiale dell’interruzione delle ricerche è il ghiaccio che impedirebbe di sondare ulteriormente il terreno. In Kosovo, il 15 novembre 1999, il termometro segna in realtà +11° C. Il genocidio non è mai esistito, mentre la pulizia etnica violenta non smette di proseguire; chiunque siano i carnefici o le vittime.
Il pasticcio del 2008
Dopo nove anni di protettorato militare, l’unico obiettivo raggiunto dall’occidente è stata la precaria pacificazione delle parti in causa, in particolare attraverso la progressiva presa d’atto della pericolosità dell’UCK e quindi della necessità della sua neutralizzazione. Del resto le forze serbe erano state già azzerate con la guerra del 1999.
Raggiunto questo obiettivo, tutt’altro che straordinario, l’occidente ha pensato bene di rimetterlo di nuovo in discussione. Dopo che, il 10 dicembre 2007, terminano con un nulla di fatto le trattative tra serbi e albanesi, la parte albanese profitta del sostegno degli Stati Uniti e di gran parte dei paesi UE e, ignorando l’avviso contrario dell’ONU, il 17 febbraio 2008 dichiara unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia. Si tratta di una forzatura che non tiene conto del diritto internazionale, che crea un precedente molto delicato e che, soprattutto, viene attuata a scapito della minoranza serba della provincia.
L’UE, dimentica della tragedia del ’91, quando il frettoloso riconoscimento di Slovenia e Croazia fu tra i fattori scatenanti di un conflitto decennale, decide di farsi garante della svolta e fa partire la missione EULEX, in sostituzione di quella NATO. Le patate bollenti non sono mai troppe, evidentemente.
Lungi dal voler prevedere gli sviluppi futuri (in ambito storico e giornalistico è una pratica futile e rischiosa), non si può non rimarcare il gravissimo rischio cui l’occidente ha esposto di nuovo la regione balcanica: se infatti, Belgrado non sembra allo stato attuale nella posizione di poter agire frontalmente contro il nuovo Stato, è indubbio che la comunità serba del Kosovo non potrà che tentare di ostacolare la maggioranza albanese. Scontri e proteste violente a Mitrovica sono già stati registrati. E, se il futuro eviterà nuove guerre, nuovo sangue e nuovi morti (ce lo auspichiamo), il merito non sarà certamente di chi ha voluto, ancora una volta, scherzare con il fuoco.
Giulio Gori
Da DEApress.com